Diventare scrittore sportivo: intervista a Ettore Zanca

Quello di diventare uno scrittore e un giornalista sportivo di successo è un sogno per tantissimi giovani, appassionati di letteratura e, ovviamente, di sport. Ma in pochi si rendono conto, in prima battuta, che la strada è ben più accidentata del previsto: la capacità di coinvolgere e conquistare i lettori, oltre a un po’ di talento, richiede anche molto impegno e dedizione.

Nella fitta palude del giornalismo sportivo, becero chiacchiericcio, pettegolezzi social, e faziosità si intrecciano quotidianamente contribuendo a inquinare il fascino autentico del calcio, e in generale dello sport. C’è però anche chi adora raccontarlo scavando nella sua essenza, appoggiando l’orecchio al suo cuore per ascoltarne i battiti. Ed emozionarsi. Un’oasi a cui pochi desiderano ancora abbeverarsi, continuando a macinare chilometri nell’infinito deserto del mainstream. Pochi, nobili cavalieri senza macchia che sventolano ancora fieri il vessillo dello sport come meravigliosa espressione e metafora della vita.

Un posto d’onore in questa piccola tavola rotonda, spetta sicuramente a Ettore Zanca, autore, blogger e docente di storytelling sportivo e di scrittura, da sempre affascinato dall’idea di uscire dagli schemi, di muoversi liberamente dall’angusto e ristretto recinto del giornalismo per avventurarsi in territori inesplorati con destrezza e coraggio, nonché con grandi capacità professionali. Osando, rischiando, sperimentando, senza mai assoggettarsi alla linea comune, al pensiero unico, alla faciloneria dei salotti tv che sfocia costantemente nel bar sport.

Ettore, tu sei senza dubbio uno degli esponenti della nuova scrittura sportiva in Italia. Qual è il confine tra sport e letteratura secondo te? Lo sport può essere considerato una peculiare forma d’arte a prescindere, o lo diventa secondo te solo in particolari casi e momenti, come grandi eventi o incontri rilevanti a livello storico?

Semplice. Il confine non c’è. Hitchcock diceva che i film sono la vita senza i tempi morti. Lo sport è una forma d’arte molto simile. Attraverso gli eventi sportivi ripercorriamo epoche e momenti. Ricordiamo la guerra in Jugoslavia anche perché la Danimarca vinse un europeo in cui sostituì proprio gli slavi. Il trionfo che si mischia alla tragedia e la rievoca. Apprendiamo di geografie e Paesi. Pochi sapevano dove fosse la Transnistria prima che lo Sheriff facesse l’impresa con il Real Madrid. Il calcio è pretesto di contrasti religiosi, Rangers contro Celtic in Scozia è, prima di tutto, protestanti contro cattolici. E tanti derby nascono dal contrasto di classi abbienti contro operai. Ricordiamo storie d’amore e di amicizia a cadenza di mondiali e Olimpiadi. È riscatto sociale, come i vari trionfi azzurri di questi mesi che ci hanno ripagato di tantissime sofferenze. Lo sport è un immenso racconto collettivo di vita che scriviamo ogni volta o attraverso il quale ci immedesimiamo nell’eroe. Una partita, per esempio, è un capitolo dell’immenso romanzo imprevedibile del calcio. Ogni atleta porta dentro di sé un romanzo che spesso ha parti memorabili davanti ai nostri occhi.

Molto spesso la letteratura sportiva più nota ha costruito un discorso sul calcio e sullo sport fondato sulla memoria positiva di ciò che era antico, romantico. Qualcosa di ormai perduto a fronte del suo inserimento nei circuiti dello spettacolo e del profitto. C’è possibilità per lo sport di conservare ancora qualche elemento ‘antico’ in senso positivo, slegato dal business che ormai sembra essere penetrato in ogni suo anfratto sin dalla rivoluzione degli anni Novanta, delle pay‐tv, del merchandising?

Kenneth Goldsmith nel libro “perdere tempo su internet” dice che è cambiato il modo di raccontare, ma non l’istinto di farlo. Si racconta più rapidamente. Lo sport vive di immediatezze nella cronaca, ma poi assume spessore narrativo se si sanno fissare i momenti. Non c’è più soltanto il libro, la narrazione sportiva è sui social e nel fiume narrativo che li compone. Le storie di sport adesso guardano al lato umano. Mi ricordo la storia dell’amicizia tra l’attaccante del Sunderland Jermaine Defoe e un piccolo tifoso, Bradley Lowery, malato di neuroblastoma. Fu più la tenerezza struggente del loro rapporto umano a colpire che l’aspetto sportivo. E quando Defoe segnò il gol che qualificava ai mondiali 2018 l’Inghilterra davanti agli occhi di Bradley tutto ebbe un sapore magico misto al sale delle lacrime. Perché qualche giorno dopo il ragazzo non sarebbe sopravvissuto. Ecco. Di fronte a tutto questo, credo che lo sport conservi ancora una dignità che nessun business può rendere volgare. Ma non solo le parole raccontano. Ora anche le maglie hanno storie cucite addosso. La Danimarca gioca con le frequenze sonore dell’inno nazionale stampate sopra le maglie. Il Venezia rievoca con le sue divise tutte le bellezze della città, mosaici, Laguna, piazza San Marco. Anche quello è storytelling.

Il calcio, lo sport, possono essere secondo te utilizzati per riportare alla lettura in un epoca dominata dalla frenesia dell’informazione rapida, dell’attenzione breve come quella veicolata attraverso i social network? Pensi che scrivere di sport possa essere anche un vettore “pedagogico”, con il quale parlare di altro?

Assolutamente sì, la gente ha fretta, ma legge se non cade la soglia di attenzione e sta a chi racconta fare in modo che non succeda. Ma la narrazione breve può dare spazio a mini romanzi di vita meravigliosi di riscatto. Sui social ho raccontato di Kuba, calciatore polacco che ha giocato in nazionale vincendo il trauma infantile di vedere la madre uccisa dal padre, fu salvato dallo zio. O Livermore, calciatore inglese positivo alla cocaina dopo una partita che ammise l’uso davanti al giudice sportivo ma disse di averlo fatto per il dolore della morte del figlio. E per questo fu assolto dal tribunale sportivo.  Sì, lo sport insegna a risorgere. E raccontarlo anche nella compulsività dei social è possibile. Durante i mondiali del 2018 e ai recenti europei ho raccontato per radio e social ogni giorno una storia di un calciatore che quel giorno avrebbe giocato. Perché credo nella bellezza delle anime che trovano un senso dopo essersi perse.

Le Olimpiadi di Helsinki del 1952 ebbero come cronista d’eccezione per il quotidiano l’Unità lo scrittore Italo Calvino. Si dice che l’idea fosse venuta dal direttore dell’Unità di Milano, che aveva l’idea di unire letteratura e sport. Pensi che nell’era digitale della lettura multitasking in cui si passa da un contenuto all’altro in pochi secondi ci possa essere ancora posto per una scrittura in grado di ambientarsi o sublimarsi nelle nostre anime?

Quando parliamo di sport parliamo della seconda causa di pulsazione accelerata dei nostri cuori dopo l’amore inteso come carne e spiritualità. Il racconto sportivo è quanto di più vicino alle nostre viscere. E nasce con noi nella maggior parte dei casi. Noi siamo quelle palestre puzzolenti in cui proviamo un muro a pallavolo. Siamo quel calcio in faccia perché i nostri genitori volevano che facessimo judo. Le mattonelle contate per ore nuotando in piscina perché magari eravamo più pesci che animali di terra ma siamo anche quelli che in eterno, anche nell’epoca del virtuale, metteremo gli zaini come pali e faremo due calci fino alle urla delle madri per chiamarci che è pronto. E anche da adulti, ogni volta che vediamo dei ragazzini giocare a calcio in piazza, abbiamo per un attimo la tentazione di dire “posso giocare anche io?” Con la stessa tenerezza con cui Calvino nel libro “Gli amori difficili” dice alla donna che non lo ama: “E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro. Verresti?”.

Saprai benissimo quanto sia difficile, in Italia, accostare queste due parole: “letteratura” e “sportiva”. In molti storcono il naso, come se lo sport non meritasse di essere raccontato in un certo modo. Cosa ne pensi?

Quelli che storcono il naso forse non ricordano il valore letterario del calcio, per esempio, per tanti scrittori. Albert Camus prima di scrivere voleva fare il portiere, lo fermò la pleurite, Evtushenko, poeta russo, sognava di difendere i pali della Dinamo Mosca, ma si presentò ubriaco al provino. Presero Lev Jascin al suo posto. E curiosamente uno fu candidato al Nobel quando l’altro vinse il pallone d’oro nel 1963. La narrativa sportiva ha una sua dignità. Solo che le storie sono spesso sporche di fango e di polvere e quindi difficili da trovare. Per cui è meglio svilire che cercare. A volte ho la sensazione che chi dice che lo sport non ha dignità letteraria, da bambino non sia stato felice con una palla fatta anche di gomma talmente leggera da essere preda di Eolo più che dei piedi. Galeano disse che non sapeva spiegare la felicità, ma sapeva vederla, gli bastava guardare i bambini che giocavano a calcio.

Siamo alla domanda che tutti quanti aspettano, quella da un milione di dollari: come si scrive un racconto sportivo e come si diventa scrittore sportivo?

Scrivere di sport richiede la capacità di spostare il riflettore. Così come nell’impresa sportiva le luci sono per l’atleta, così lo devono essere le parole. 

Per scrivere un racconto sportivo, per me, bisogna guardare sempre la periferia mentre tutti guardano il centro. Tutti ricordiamo o abbiamo presente il gol di Tardelli nella finale mondiale del 1982. Ma dietro di lui come fautore dell’azione c’era Scirea. Così mentre tutti ricordano l’urlo del Coyote come veniva chiamato Tardelli, pochi ricordano il sorriso da bimbo felice che ha Scirea dietro di lui. Ecco. Un racconto si scrive provando a guardare la stessa cosa da un punto dove altri non hanno guardato attentamente. Ad esempio, nel rapporto esclusivo che hanno il calciatore e la palla mentre si congiungono prima di un gol storico, sarebbe interessante raccontare dal punto di vista della palla, del poliziotto a bordo campo, del portiere appena sconfitto, del bambino che si trova per la prima volta allo stadio e vede perdere la sua squadra. O si scrive dando voce a chi non ne ha, a chi merita la dignità di avere parole cucite addosso. Chi racconta è un equilibrista. Spesso prende una storia per portarla in salvo dall’altro lato. E nel frattempo forse ha salvato un po’ se stesso.

Come sei arrivato a scrivere di sport?

Come Gaber dice che qualcuno diventava comunista. Per fare dispetto a mio padre. Scherzi a parte, in famiglia nessuno amava il calcio e io invece lo vedevo come la più spietata metafora della vita. 

Ho giocato a calcio e questo mi è servito a respirare spogliatoi dagli odori controversi, ma dalle amicizie limpide ed eterne che ancora ho nel cuore. Certo, il mio amore per il calcio giocato è stato non corrisposto. Diciamo che nessuno ha pianto quando ho smesso. Ho cercato di trasformare in narrazione un amore viscerale. 

Da lì sono arrivate le collaborazioni con Repubblica, Io gioco pulito che è un blog partner del Fatto e con Stadio news. E chi mi legge mi dona il suo tempo che per me è la cosa più preziosa da dare. La cosa più bella che possa sentirmi dire quando scrivo di calcio arriva proprio da chi non lo ama e mi legge perché comunque racconto storie di esseri umani con le loro fragilità, sconfitte e sorrisi. Ho scritto anche racconti e romanzi inventati, sono molto legato al racconto del mio primo libro “lo spacciatore”, che parla di calcio. Il mio ultimo romanzo di prossima uscita parla di sport in maniera molto particolare.

Ci racconti come funziona il processo di scrittura per te? Ti documenti e poi scrivi? Segui un procedimento predefinito o ti guida l’ispirazione?

Citando Arrigo Sacchi, le trovo con “occ, pazienza e bus de cul”, occhio, pazienza e fortuna. Scherzi a parte, credo che le storie a volte ti arrivino davanti per essere raccontate. 

Raccontare una storia per me ha prima di tutto il requisito del rispetto verso il protagonista. Voglio sapere le curiosità, gli aneddoti, quello che magari non viene detto nella maggior parte dei casi. Non amo la scrittura precipitosa, preferisco un racconto decantato come un bicchiere di vino preso con calma a fine pasto che buttarmi nell’immediato delle celebrazioni o scritture compulsive. La storia però deve sussurrarmi la sua esistenza. Il processo di scrittura è spesso immediato e quasi senza regole se non quelle che sento nella pulsione del racconto. È il momento a suggerirmi tutto. E poi mi piace raccontare l’uomo con tutte le sue cicatrici e scorie esistenziali. Parafrasando al Pacino ne l’avvocato del diavolo “amo l’uomo e le sue imperfezioni, sono un umanista e mi piace vivere con il naso ben ficcato in questa terra”.

Come cerchi e come trovi le tue storie?

Ogni mattina presto ho sempre lo stesso rituale. Parto dalle testate italiane e guardo qualcosa che può incuriosirmi. 

Non scrivo solo di sport, per cui è come aprire la porta di casa e lasciar entrare le storie. Loro mi raccontano e io faccio il caffè. Poi guardo la stampa straniera e le riviste di ogni genere. Di solito qualcosa scatta e a quel punto prendo qualche appunto. Al momento in cui posso ho già chiaro quello che devo scrivere. 

La mia regola è che se non sento urgenza posso anche non scrivere. Le storie e i loro protagonisti meritano rispetto e parole scelte.

Quale consiglio ti senti di dare a chi sogna di diventare un giornalista e uno scrittore sportivo?

Di imparare dai maestri. Brera, Mura, Viola, sono intramontabili (aggettivo coniato da Brera, peraltro), leggere i loro pezzi è mettere le fondamenta allo storytelling sportivo. C’è bisogno di una solida base narrativa e loro la forniscono nella genialità del racconto. 

Poi di ascoltare i consigli di chi fa questo mestiere da tempo. Io ho la fortuna di confrontarmi con voci autorevoli e spesso chiedo più volte lumi. E poi di considerare alcuni ingredienti fondamentali prima di scrivere qualsiasi pezzo. Competenza, passione e il motore di tutto. L’amore. Senza amore si è esangui. E occorre buon sangue per trasformarlo in ottimo inchiostro. 

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