Come usare gli oggetti magici nelle storie: KWL intervista Omar di Monopoli

Gli oggetti o strumenti magici sono un elemento cardine dello storytelling. Abbiamo il piacere di parlarne insieme a Omar di Monopoli, autore affermato della trilogia neo-western Uomini e cani, Ferro e fuoco e La legge di Fonzi, della raccolta di racconti Aspettati l’inferno e nel 2016 Nella perfida terra di Dio (Adelphi). Nel 2021 ha pubblicato Brucia l’aria, brillante romanzo edito da Feltrinelli. Nei titoli di Omar, tutti ambientati in luoghi pseudo-pugliesi, riecheggia la narrativa del primo Novecento del Sud degli Stati Uniti, tanto da poterlo definire un Falkner pugliese, autore a cui si è ispirato per l’estetica e la ricerca stilistica. 

Avranno qualcosa in comune gli oggetti magici e il Southern Gothic riadattato in ambientazione pugliese? Chiediamolo a Omar.

Ciao Omar, facciamo con te prima un passo indietro: cosa si intende con il termine strumenti magici? Quali sono le loro caratteristiche e come inserirli nella nostra narrazione? E infine, qual è per te lo strumento per eccellenza?

Sulla definizione di strumento magico in narrativa credo si possa dibattere a lungo senza trovarne una davvero esaustiva. Il confine è labile. Mi sento di dire che – traslando simbolicamente dal genere fantasy – si intende per strumento magico quel dispositivo che scioglie l’incantesimo e permette alla storia di proseguire; pertanto, dal punto di vista narratologico, per me lo strumento magico per eccellenza resta la “metonimia”, che se nella retorica tradizionale indica la sostituzione di un sostantivo con una figura (ad es. bere una bottiglia), in letteratura ti permette invece di seminare tracce lungo lo srotolarsi di una storia accompagnando il lettore alla risoluzione del conflitto. Ecco, le “briciole” disseminate attraverso le metonimie in una storia sono sicuramente un corrispettivo dello strumento magico.

L’oggetto magico, come elemento della storie, è frutto, così come le figure dell’eroe e dell’antagonista, dei valori, delle credenze e delle fantasie di una cultura. Non sarà forse un elemento ormai desueto nella narrazione? Oppure non è più il classico “strumento fatato” e, in forme rinnovate, è sempre presente come elemento costitutivo dello storytelling?

Gli archetipi servono a puntellare delle direttive. Ma, ovviamente, sta all’abilità dell’autore superarle o addirittura, quando è il caso, stravolgere. Le regole vanno quindi apprese e metabolizzate a fondo per poter essere scardinate: nella maggior parte delle fiabe gli oggetti magici rivestono ruoli chiave nelle trame, e la trama classica prevede che l’avventura del protagonista abbia inizio con la ricerca dell’oggetto magico in questione attraversando varie peripezie, oppure che essi ne siano già in possesso e che lo perdano per poi lottare per riconquistarlo; la moderna narrativa invece – non necessariamente fantasy – è interamente costruita su varianti alternative di questa trama. È una questione di schemi, di tracciati: si parte da una visione lineare e canonica per provare a uscire dalla gabbia codificata. Indipendentemente dai tempi e dalle mode.

Perché l’oggetto magico esercita attrattiva? Cosa innesca nel lettore e su cosa fa leva? Desiderio di conoscenza? Brivido dell’ignoto e del mistero? E, infine, possiamo considerarlo unica leva per destare l’interesse del lettore o dobbiamo considerarlo all’interno di tutti gli elementi dello storytelling?

Non sono così certo che sia solo lo strumento magico a innescare il gancio con l’interesse del lettore. Perlomeno non credo nell’esclusività del suo potere. Da scrittore di noir (con numerose capatine in altri generi) so che, con i dovuti accorgimento, ogni espediente narrativo, posto nella maniera corretta da chi lo appronta, può essere un appiglio assolutamente funzionale a tenere desta l’attenzione di chi legge. Ancora meglio: uno scrittore DEVE saper ricorrere a più dispositivi narrativi per raccontare una storia che non permetta al lettore di abbandonarla fino alla fine. Ecco perché affidarsi solo allo strumento magico può essere limitativo e alla lunga mostra le corde dichiarando semmai la pigrizia di chi scrive.

Senza di esso, l’eroe riuscirebbe ugualmente a compiere il suo viaggio solo con le sue forze? O è forse parte necessaria del suo essere “imperfetto”?

Se lo strumento magico è la conditio sine qua non per il cammino del personaggio direi che abbiamo qualche problema. Ripeto: la fiction, soprattutto quella non legata agli stilemi del fantasy, trova dei surrogati sempre validi alla bacchetta del mago. Certo, dal punto di vista della tecnica scrittoriale un omicidio, un rapimento, un attentato e persino una crisi esistenziale individuale sono speculari a uno strumento magico. Per cui il rilievo dell’espediente nell’architettura di un racconto è sempre notevole, ma niente avrebbe senso se l’autore non ha in testa una visione chiara della storia che vuole raccontare… 

C’è uno strumento magico che ha sempre destato fascino in te come lettore? E in te come scrittore? Esistono strumenti magici che accorrono in soccorso dell’antagonista? E nei tuoi romanzi? Se sì, quali?

Ogni escamotage narrativo è uno strumento magico, a ben guardare, ogni dispositivo messo al servizio di una storia è un “oggetto” dai poteri miracolosi cui l’autore ricorre per liberare la propria narrazione e far sì che il lettore si immerga nella vicenda che gli sta raccontando. Oltre alla metonimia cui ho fatto cenno prima, direi che per uno scrittore è essenziale apprendere l’allegoria: servire cioè i significati nascosti delle storie attraverso un sottile “non detto”. E, se ci pensiamo, questo “non detto” aderisce in maniera perfetta alla regola cardine di ogni scrittura creativa, quello “Show, don’t tell” che sorregge tutte le narrazioni professionali degne di questo nome. 

Per i tuoi romanzi si sono coniate delle vere e proprie categorie critiche totalmente nuove: si è parlato di western pugliese, di verismo immaginifico, di neorealismo in versione splatter, il tutto debitore in qualche modo della narrativa novecentesca del Sud degli Stati Uniti a cui ti sei ispirato, il Southern Gothic. Nelle tue storie, costellate di eroi e antieroi spietati, c’è ancora spazio per lo strumento magico? Oppure questo elemento è incompatibile con un’impostazione cruda e verista?

Da quasi un ventennio sto allestendo una sorta di mia personale contea letteraria fatta di piccole metropoli rurali e agglomerati balneari in cui un’umanità dispari s’incrocia consumando passioni, aspirazioni e violenze. La storia personale e i vincoli di sangue dei personaggi che muovo sono un lascito pesante per ogni pedina di questo gioco – un gioco dannatamente serio, sia chiaro – in cui alla fine il fulcro sono le ambizioni appassite e sentimenti negati. Credo si possano definire queste ultime come lo strumento magico alla base della mia produzione. Assecondando un’idea di «universo condiviso» in cui le cose succedono plasmando storie, faccio incrociare eventi e personaggi pescandoli da libri diversi: nell’ultimo, «Brucia l’aria» (Feltrinelli), ricompaiono per esempio i Minghella, già presenti in «Uomini e cani», due fratelli “malacarne” che finiscono in rotta di collisione coi Caraglia, questi invece assolutamente inediti: una famiglia di disperati il cui capostipite faceva il pompiere ma si beccava il pizzo minacciano sfracelli col fuoco. Il fuoco è centrale, in «Brucia l’aria». Parte infatti tutto da un grande incendio che divorò una porzione consistente del capitale paesaggistico dalle mie parti, nei Novanta. E poiché il tema dei roghi incontrollati durante la stagione calda continua a rappresentare in Puglia un problema, ho pensato bene di costruirvi attorno una storia corale, che verte (anche) sulla piromania, ma soprattutto attorno ai destini di un pugno di piccoli criminali sbilenchi: rubagalline che si credono divinità sino a quando il fato non sopraggiunge a chieder il fio delle loro mattane. Il riscatto di questi antieroi è sempre affidato a vie troppo impervie e deragliate per espletarsi compiutamente: non diremo come, ma le cose non vanno esattamente per il verso giusto anche in questo romanzo.

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